Da anni ormai seguo questa talentuosa scrittrice statunitense, l'ho
amata da subito alla prima lettura di “Olive Kitteridge” e poi non mi ha
mai deluso.
“Mi chiamo Lucy Barton” è una novità in tutto,
dall'editore (di solito è pubblicata dalla Fazi in Italia) alla
costruzione e scrittura del romanzo. La Strout mi ha conquistata per la
struttura classica dei suoi romanzi, corposi affreschi della moderna
società in cui viviamo; in questo suo nuovo lavoro abbandona
completamente lo stile classico e ne esce un gioiello narrativo.
Con
una scrittura scarna, scevra di inutili fronzoli, ci accompagna nella
vita della protagonista che in prima persona ci racconta di sé aprendosi
completamente.
Il romanzo inizia con Lucy che ricorda le nove
settimane passate anni prima in un ospedale, immediatamente ci cala nel
suo quotidiano, ci racconta del dottore gentile, del marito, delle
figlie e presto arriva alla visita in ospedale della madre che non vede
da anni.
Da questo punto in poi inizia la riflessione sulla sua
infanzia vissuta in povertà, sul rapporto con i genitori e i fratelli; a
queste riflessioni si alternano momenti in cui dialoga con la madre a
volte teneri, a volte rabbiosi. Ci racconta dei luoghi dove ha vissuto,
dei suoi amici, di una scrittrice con la quale ha fatto un corso di
scrittura e che le ha cambiato la vita e della dottoressa gentile con la
quale si confida.
Lucy Barton è una persona che si interroga, che
cerca di approfondire le conseguenze del suo vissuto, delle sue
decisioni, che non si cela agli occhi dei suoi lettori.
“Mi chiamo
Lucy Barton” è una miniatura narrativa, non c'è nulla di superfluo, da
leggere tutto d'un fiato per poi riprenderlo più volte e assaporare ogni
pagina e riflettere su ogni considerazione.
A mio parere è un romanzo superbo.